Essere e Senso

 

 

MONICA LANFREDINI

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 04 giugno 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]

 

Il presente scritto può considerarsi un rapporto sintetico di una riflessione sviluppata in seno al Seminario sull’Arte del Vivere della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life Italia”.  La parola “Senso” del titolo deve essere intesa quale “sensazione psicologica di significato che costituisce valore” (Giuseppe Perrella) come nell’espressione “il senso della vita”.

 

1. La concezione dell’essere ha sempre influenzato il modo di pensare a sé stessi e agli altri. Il valore della persona umana nelle grandi culture della storia è sempre stato in rapporto con la concezione dell’essere, e nel tempo presente proprio la mancanza di una chiara concezione dell’essere sembra contribuire allo svilimento della persona e a una perdita di prerogative proprie del soggetto che prescindano dal suo ruolo funzionale e dalla sua valenza economica e politica. La massificazione del ceto intellettuale, inglobato nella moltitudine anonima di consumatori, utenti o elettori, ha contribuito a tacitare le voci libere di riflessione sull’uomo, facilitando la rimozione, o la vera e propria cancellazione, delle elaborazioni di pensiero da porre alla base dell’esistenza.

Al Seminario sull’Arte del Vivere, proseguendo la discussione avviata la scorsa settimana, si è notato che oggi non si pone più la questione dell’essere tra gli argomenti prioritari, nemmeno nel ristretto numero di pensatori che ancora si dedica alla speculazione per sincera passione del sapere e desiderio di conoscenza. Schiere di studiosi contemporanei hanno diffusamente illustrato, analizzato e dibattuto le cause dell’evidente involuzione, regressione e stasi o stagnazione culturale cui sembra siamo tutti condannati, perché rassegnati all’ineluttabile imbarbarimento causato dall’adeguamento ad oltranza alla superficialità delle mode e alla cancellazione di ogni aspirazione ideale. Noi proseguiamo per la nostra strada, a volte faticosa, ma sempre ricca di occasioni di conoscenza che contengono l’implicito potere di cambiamento che ci conferisce la comprensione.

Oggi viviamo la desertificazione o la scomparsa, se si vuole, di un campo che era stato ingombro di rovine dovute alla distruzione virtuale dell’edificio dell’essere che resisteva da due millenni, proprio quando le città europee erano invase dalle macerie materiali della guerra. Procediamo con ordine.

 

2. L’Essere e il Nulla. Nel 1943 Jean-Paul Sartre pubblica L’Essere e il Nulla (L’Être et le Néant: Essai d’ontologie phénomenologique) in cui distingue l’essere-in-sé, ossia quello dei fenomeni, dall’essere-per-sé, ovvero quello della coscienza, che, negando il primo, cioè l’essere-in-sé, si configura come non-essere e induce la riflessione ontologica sul nulla[1]. La distruttività di quel pensiero è perfettamente in carattere con la completa perdita di fiducia nell’uomo, ispirata dai massacri e dagli orrori interminabili del secondo conflitto mondiale.

La prima traduzione italiana si avrà solo nel 1958, quindici anni dopo, e la diffusione del libro fra i giovani universitari avviene in Italia negli anni Sessanta, in una temperie del tutto diversa, quando la pace, il boom economico, la diffusione delle automobili, i voli transoceanici, la televisione, gli elettrodomestici e tutti gli altri agi del nascente consumismo sembrano promettere una vita piena, ricca e intensa, senza spazio per il vuoto esistenziale. E, infatti, tra i giovani il nulla sartriano si limita a creare qualche moda passeggera e un po’ snob, come vestire di nero e dichiararsi “in lutto per la vita”, ma poi scompare cancellato dal pensiero ideologico che la fa da padrone in quel periodo, attraverso la politicizzazione capillare della società.

In Italia la negazione dell’essere in termini di nichilismo si ripropone con un ritorno di interesse per Nietzsche e Heidegger, come provano gli studi di Valerio Verra, ma una risonanza al di fuori degli ambienti filosofici si ha solo con Gianni Vattimo e la sua Apologia del nichilismo (1981), nella quale suggerisce, per superare il disagio della civiltà di freudiana memoria, l’assunzione di un “nichilismo attivo”: una ricetta che non fa i conti con gli effetti sull’equilibrio psicologico di una tale scelta esistenziale.

Emanuele Severino, dal canto suo, sposta paradossalmente e provocatoriamente il nulla all’interno degli enti, affermando che agli enti è consentito il non-essere, e concludendo, nel saggio Essenza del nichilismo[2], che il Dio della metafisica e la tecnica, quale dominio della produzione degli enti, sono le due espressioni fondamentali del nichilismo.

Negli anni seguenti, come si è già accennato, il problema dell’essere e della sua dissoluzione è stato accantonato o relegato alle trattazioni di storia del pensiero filosofico.

Ma come si arriva a questo punto? Ritorniamo all’essere dei Greci.

 

3. All’origine del termine essere e della sua radice antropologica di senso. L’ambito lessicale della parola essere in greco designa valori semantici di estremo interesse, che rivelano l’origine da una radice concettuale coincidente con tutto ciò che esiste in natura. Studiando il termine, gli storici delle lingue, d’accordo con gli etimologisti, hanno riconosciuto il suo uso legato fin dall’epoca arcaica all’esigenza di denominare e comunicare a proposito dell’esistenza materiale. La chiave dell’essere, per i Greci, è nella phusis (o physis), quella natura che genera e trasforma la materia inorganica, tanto quanto quella organica degli esseri viventi. Il concetto è formulato in riferimento alla presenza nel tempo e nello spazio di materia e, dunque, rimane ben lontano dal vuoto del nulla cosmico e di ogni negazione di realtà della speculazione contemporanea.

Il vocabolo phusis nella sua radice vuol dire essere, appartiene alla famiglia del verbo phuō, che vuol dire produco, genero, cresco, e origina dalla radice sanscrita bhu-, bhavati, che designa appunto l’essere, e dalla quale deriva anche il latino fui, perfetto di esse.

In Parole della filosofia Salvatore Natoli scrive: “Essere è un termine assoluto della filosofia. La parola è dei Greci, e comunque è stata elaborata filosoficamente da loro. L’antica parola ritorna nella filosofia di Aristotele e ne rappresenta il transconcetto per eccellenza: l’essere considerato per sé stesso, l’essere in quanto essere. Ma cosa significa tutto questo, cosa intende Aristotele per essere? Intende la totalità di tutto quel che esiste, di quel che c’è. E nel dire “c’è” mi riferisco a ogni singola determinazione, e in generale a ogni tode ti. Per Aristotele infatti solo il tode ti[3] ha realtà, effettivamente esiste: il mondo è fatto di sostanze prime”[4].

Ai fini della nostra riflessione è importante sottolineare una differenza radicale tra la concezione di Aristotele e quella sviluppata, dopo tanti secoli di cultura cristiana, dal pensiero che accosta e contrappone l’essere e il nulla, sulla scorta di Nietzsche, Heidegger e Sartre: Aristotele denota ogni determinazione concreta, ogni tode ti, come esistenza assoluta; il “non essere” non indica mai un puro niente, ma solo un differente stato della phusis al quale non si può applicare il termine “essere”.

 

4. La conversione al Dio ebraico sposta l’essere dalla materialità della natura all’immaterialità dello spirito. La nozione di essere cambia con la comparsa all’orizzonte della storia dell’umanità del Dio degli Ebrei. Il fatto, secondo i credenti, consiste nel diffondersi, attraverso le conversioni, della conoscenza dell’unico vero Dio rivelato al popolo ebraico; secondo atei e agnostici consiste nella diffusione di una cultura che ha il suo fulcro nella concezione religiosa monoteista di un Dio creatore. In ogni caso, l’Ente supremo indicato con le lettere del tetragramma JHWH quando gli Ebrei ancora non scrivevano le vocali, e poi translitterato in vario modo, fra cui Javé e Jeova, aveva definito sé stesso, nel racconto della rivelazione, in termini di essere, dicendo: “Io sono colui che è”. Frase riportata spesso in italiano con una sgrammaticatura: “Io sono colui che sono”, giustificata dall’intento di fedeltà letterale all’originale ebraico in cui vi è la ripetizione della stessa forma verbale.

Rispetto alla concezione greca, che fin dai tempi arcaici riporta l’esistente nella sua totalità di cose ed esseri viventi alla materialità della phusis, il monoteismo ebraico accentra la nozione di Essere nel Creatore, che la possiede nella sua astrazione come qualità assoluta, perfetta ed eterna, e dal quale si irradia in ogni elemento della realtà nella diacronia universale. “In questa ottica – ha osservato il nostro presidente – la coscienza individuale di ciascuno può considerarsi come un frammento dell’estensione nel tempo e nello spazio dell’essere che procede da Dio e al quale si fa appartenere la dimensione dell’anima”.

Il cristianesimo, non si limita a diffondere da Roma in tutta Europa, nel Vicino Oriente e nel Nord Africa, l’insegnamento pastorale evangelico che conferisce implicitamente all’Eterno Padre lo statuto di Essere per essenza, esistente da sempre e per sempre senza un inizio e una fine, ma fonda la teologia e l’esegetica come discipline dello spirito che vogliono accrescere l’intelligenza umana di Dio e delle Sacre Scritture.

Il cambiamento è sostanziale: l’essere umano cambia la sua essenza, perché non appartiene più alla materialità biologica della phusis, ma all’immaterialità spirituale di Dio, e la sua natura consiste in un’anima immateriale ospitata in un corpo mortale, ma destinata a vivere come Dio in eterno. L’essere cristiano, a immagine e somiglianza del Creatore, ha il suo nucleo identitario nell’anima e solo un elemento accessorio, ovvero una dimora, nel corpo. Nasce così il concetto di carne. Quella parte che include ogni organo e apparato, compreso il cervello, ed è governata da un regime interno espresso da desideri che entrano in contrasto con la legge divina e richiedono la proba e saggia amministrazione da parte della volontà.

Si passa dal corpo che si è, della cultura greca ed ellenistica, al corpo che si ha della concezione cristiana. Per i Greci il corpo coincide con l’essere della persona; per i cristiani è una parte, e non quella principale: una vera rivoluzione.

Ma la differenza maggiore è nell’attribuzione di valore. Il valore della persona per gli antichi è determinato dalla posizione che occupa nella scala sociale, o da meriti speciali pubblicamente riconosciuti. Nel cristianesimo il valore, uguale per tutti gli esseri umani, è conferito dal comune statuto di figli di Dio. Nel mondo pagano si cresce di considerazione piacendo agli uomini, in quello cristiano si progredisce nella santità piacendo a Dio.

Anche se nella realtà umana documentata dalla storia il mondo cristiano esiste nelle leggi, nella cultura e nell’ispirazione dell’arte, senza riuscire mai a compiere il Regno di Dio su questa Terra, ossia senza mai realizzare una società di santi, e conservando in singoli, in gruppi, in popoli interi, in tradizioni di sostrato, nel ritorno di antichi peccati come costumi nuovi importati da paesi idealizzati dal desiderio, molti aspetti della sensibilità pagana. La cultura cristiana, però, impronta in modo decisivo il pensiero dei due millenni per ciò che attiene il modo di concepire l’esistente: Dio ha creato tutto dal nulla, perciò chi crede riporta tutto a Dio e chi non crede tende a risalire al nulla, e non si accontenta più dell’inizio greco dal chaos. Infatti, andando oltre l’archē, il principio di tutto col quale Aristotele apre il libro della Metafisica, troviamo l’origine nella Teogonia di Esiodo dal chaos, che, lungi dall’essere uno stato di confusione secondo l’accezione moderna del vocabolo caos, “configura una condizione ‘beante’, l’aprirsi nell’atto stesso del dischiudersi e il suo permanere in un’oscillazione di porte insufficienti su un varco di esistenza come possibilità indefinita in un apparente equilibrio d’attesa, anche se presumibilmente precario, del divenire costitutivamente indecidibile”[5].

È questa origine ideata dalla creatività ellenica primordiale che non regge più, che non può più soddisfare gli esigenti intelletti formati sulla cultura costituitasi in secoli e secoli di razionalismo cristiano. Infatti, la riflessione che ha inizio con i Padri della Chiesa, anche se prende le mosse dal partito preso dell’esistenza di Dio, costituisce un progresso logico dal quale è difficile se non impossibile tornare indietro. Cerchiamo di capire perché, riflettendo su alcuni spunti di due tra le guide principali della teologia cristiana: Agostino d’Ippona e Tommaso d’Aquino.

Sant’Agostino, non solo considera l’esistenza originaria di tutte le cose quale esito di una decisione da parte dell’Essere assoluto che le pone in esistenza per sua volontà: dixisti et facta sunt, ma lega questo atto alla teologia di Giovanni Evangelista che vuole Gesù, quale Verbo divino, presso Dio fin da principio: in verbo tuo fecisti ea (Confessioni, XI, 5.7). Ma il punto nodale per le nostre riflessioni è la dipendenza dell’essere, quale senso o valore di tutte le cose, da Dio; le cose, infatti, se non rapportate al Creatore “nec pulchra sunt nec bona sunt nec sunt” (Confessioni, XI, 4, 6): non sono né belle né buone né esistono. Non esistono: dunque, se uno non crede in Dio ma continua a pensarla come il cristiano Agostino, si trova già di fronte al nulla, inteso naturalmente nel registro e nella calibratura, come si è detto, del senso o valore.

Tommaso d’Aquino, nella prima prova dell’esistenza di Dio nella Summa Teologica, ragiona così: tutto ciò che si muove è mosso da qualcos’altro[6], ma non è possibile un regresso all’infinito, quindi è necessario che esista un primum movens che non sia mosso da altro e sia, per questo, immutabile. Nella terza prova, dopo aver distinto tra possibile e necessario, imposta la questione in termini di essere: costatiamo che vi sono cose che possono essere e non essere, infatti si generano e si corrompono, ed è quindi impossibile che tali cose esistano da sempre, perché ciò che può non essere deve necessariamente avere un tempo in cui non è. Ma se ciò fosse vero, nulla ci sarebbe perché ciò che non è non può cominciare a essere se non in virtù di ciò che è, quindi deve esistere qualcosa che sia per sé necessario e che non abbia causa di necessità in altro, ma sia causa di necessità per altri: quod omnes dicunt Deum, ciò che tutti chiamano Dio[7].

Senza entrare nel valore delle argomentazioni tomiste[8], ci rendiamo conto di come questo pensiero, che ha influenzato tutta la cultura, dalla teoretica teologica al costume linguistico – basti solo pensare che ancora oggi in patologia, in tutto il mondo, si usa l’espressione primum movens per indicare il primo elemento causale di una catena di eventi eziologici – abbia scavato per secoli nelle coscienze un solco di senso che afferma che l’essere in senso stretto è un ente che esiste solo da sé e per sé.

Concludendo, se non possiamo attribuire l’essere al corpo di una persona, come accadeva in Grecia, dove zoe, la vita, con i suoi segmenti di esistenza o bios, appartiene alla phusis matrice dell’essere, e dobbiamo considerarlo solo come un’astrazione assoluta, non vi sono molte alternative fra il credere in Dio, considerare la realtà umana sospesa nel nulla o formulare una nuova teoria dell’essere.

 

5. Se si perde l’Essere quale supporto di identità si rischia di perdere il Senso. Il pensiero negativo è sempre esistito, dallo Pseudo-Dionigi l’Areopagita che creò una teologia negativa a Nietzsche col suo Anticristo, ma si è sempre trattato di tesi filosofiche che, in termini psicologici, ponevano tutt’al più in gioco un esercizio cognitivo, ma non minavano la forza del soggetto. Anzi, Nietzsche tendeva ad accrescerla, attraverso le suggestioni galvanizzanti dell’oltreuomo o superuomo, intese ad espandere l’Io.

Ciò che è progressivamente accaduto dalla seconda metà del Novecento fino agli anni recenti, quale eredità del pensiero negativo sull’essere, ha determinato una decostruzione e un abbandono di pratiche connesse a stili di vita antichi e a ragioni culturali non più presenti, ma in grado di generare senso nei singoli soggetti e contribuire all’equilibrio psicologico. In realtà, gli effetti sull’organizzazione della vita quotidiana, delle aspirazioni ideali, del credo religioso, delle tradizioni locali e dei costumi connessi con le attività lavorative, avevano una valenza in termini di nutrimento psichico e sostegno psicologico, influenzando lo stato psicofisico, ma anche l’ideazione cosciente. Non c’era possibilità per il vissuto del nulla. E si comprende che non è solo un’ipotesi che una parte delle pratiche caratterizzate da impegno fisico, tecnico e rituale, si siano inconsapevolmente affermate nella diacronia psicoantropologica anche perché sostenute dalla loro efficacia psicoadattativa.

L’esperienza depressiva del nulla, prima dell’epoca contemporanea, è rimasta un evento così raro da non aver lasciato traccia storica.

Dal tempo di Sartre, ad ogni generazione vi sono persone, e non solo giovani, che sembrano in preda ad una frenesia esistenziale caratterizzata da continui viaggi, spostamenti, shopping compulsivo, ricerca incessante di nuovi rapporti, nuove esperienze, intense avventure e ogni mezzo per modificare il proprio assetto di coscienza, allo scopo di neutralizzare la “vertigine del vuoto” e la paura di precipitare nel nulla depersonalizzante. Si illudono di poter trovare in tal modo il senso della vita.

In queste persone sembra mancare la comprensione del fatto che il senso si costituisce dentro di noi, si fonda su apprendimenti precoci e si compie come riscontro nell’esperienza della vita: non esiste nel mondo come oggetto che si acquista e si può detenere passivamente, come qualcosa che si porta o si indossa, mostrandola agli altri. Finiscono per incontrare il nulla esistenziale, oltre ovviamente coloro che soffrono di un grave disturbo depressivo non curato[9], quanti non abbiano costituito il senso dentro di sé con la pratica stessa della propria vita, e abbiano sostituito questa palestra cognitiva e affettiva con la ricerca compensativa di gratificazioni e di ogni forma di piacere. In costoro, ciò che per gli altri è un’aggiunta, un sovrappiù o un premio, costituisce elemento fondamentale dell’adattamento psicologico alla realtà e, se viene a mancare, li getta nella depressione, con sensazioni di ciò che chiamiamo vuoto soggettivo, per la perdita di autostima, e di vuoto oggettivo, caratterizzato dallo smarrimento del valore di senso della vita[10].

C’è di peggio, naturalmente, come assumere sostanze psicotrope d’abuso e rimanere cronicamente ammalati per gli effetti tossici sul sistema nervoso centrale. Ma c’è di meglio, per rimanere alle soluzioni “fai da te” che non affrontano la bildung dell’essere ma cercano solo di eliminare i sintomi psichici derivanti dalla mancata edificazione interiore: si può entrare nella pratica di un regime razionale di attività motoria quotidiana concepito come un allenamento progressivo, adattato alle esigenze della singola persona e in grado di migliorare la fisiologia cardiorespiratoria e accrescere l’ossigenazione della corteccia cerebrale; meglio se associato a qualche rapporto sociale positivo. Per altre ragioni lo fanno in molti, e sicuramente fanno bene per la loro salute, ma in questo modo non si va molto oltre quell’orizzonte che Platone attribuiva allo schiavo, quale prototipo della persona che sia totalmente assorbita dal lavoro manuale e dalle attività pratiche da non poter concedere tempo all’edificazione della dimensione interiore.

Anche se riteniamo riduttivo e ingiusto etichettare il nichilismo come “filosofia dei depressi”, ricordiamo che molti fra artisti e letterati, particolarmente francesi, che avevano sposato quelle tesi, hanno rivelato attraverso riferimenti autobiografici di patire una sofferenza psichica con un bassissimo tono dell’umore e talora un’esperienza depersonalizzante.

Ma, se rimane un fatto che la sofferenza depressiva ispira elaborazioni sull’annientamento del senso e l’annichilimento del soggetto, è pur vero che il presente non registra pensatori impegnati a decostruire o a ricostruire l’essere, e dell’assenza di questo impegno a nostro avviso si sente la mancanza.

Allora è necessaria, per proporre una filosofia dell’essere, la genialità creativa di un pensiero radicalmente nuovo fondato su una concezione sorprendentemente innovativa? Non necessariamente: si può anche apportare qualche correttivo cristiano alla visione di Aristotele, magari risentendo della “ideologia della crisi” che ha dominato l’ultima parte del Novecento ed entrando in contrasto con la superficialità delle ideologie del benessere, come Salvatore Natoli, che si è meritato per questo l’appellativo di “aristotelico infelice”.

Affido la conclusione di queste riflessioni alle parole del nostro presidente:

“La fede nel Dio Padre Creatore rivelato da Gesù Cristo, che ha predicato il nuovo comandamento dell’amore del prossimo commisurato al suo amore, fornisce una possibilità privilegiata di concepire il proprio essere come parte dell’Essere assoluto, e di trovare il senso quotidiano della vita nel coerente agire secondo l’amore oblativo. In tal modo, il valore si sposta tutto nello spirito e nella facoltà di ciascuno di ottenerlo per scelta. La vita del cristiano, il bios, non è semplicemente un segmento di zoe, parte di phusis, come per i Greci, ma è un segmento temporale di infinito garantito per il suo valore di senso in eterno, perché il cielo e la terra passeranno ma le parole del Verbo non passeranno.

Chi non voglia, non sappia o non possa fare questo per ateismo, agnosticismo o credenza in altro, si trova in un certo senso davanti a quel varco aperto del chaos primigenio, col compito di assumersi la responsabilità di decidere di attraversarlo e scegliere una direzione da percorrere nella conoscenza e nella vita, e solo alla fine, rispondendo a sé stesso, potrà dire se il suo tempo sarà appartenuto all’essere o al nulla”[11].

 

L’autrice della nota ringrazia il presidente Giuseppe Perrella per il contributo alla stesura del testo e alla sua revisione e invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Monica Lanfredini

BM&L-04 giugno 2022

www.brainmindlife.org

 

 

 

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[1] È proprio questo passaggio che Emanuele Severino vuole azzerare nei saggi che dedica al problema del nichilismo, con l’eloquente titolo di apertura Ritornare a Parmenide.

[2] Cfr. Emanuele Severino, Essenza del nichilismo. Adelphi, Milano 1982.

[3] Lo scorso anno è apparsa una monografia sul tode ti inteso quale sostanza individuale: Marcello Zanatta, La sostanza individuale e le sue strutture nella metafisica dell’esperienza di Aristotele. Edizioni Unicopli, Milano 2021.

[4] S. Natoli, Parole della Filosofia o dell’arte di meditare, pp. 92-93, Feltrinelli, Milano 2004.

[5] Giuseppe Perrella al Seminario sull’Arte del Vivere, giugno 2022.

[6] Omne quod movetur ab alio movetur in Summa Theologiae I, 1 q.2 a.3.

[7] Summa Theologiae, ibidem.

[8] Cfr. S. Natoli, Parole della Filosofia o dell’arte di meditare, p. 95, Feltrinelli, Milano 2004.

[9] Ma, in proposito, è lecito chiedersi, come fa il nostro presidente: esiste davvero la possibilità di esperire il nulla, ossia il vuoto esistenziale, senza uno stato depressivo del cervello? L’apologia del nichilismo e tutte le formulazioni parziali di svilimento dell’essere e del senso della vita nascono realmente da elaborazioni logiche di menti serene e distaccate?

[10] La distinzione in vuoto soggettivo e vuoto oggettivo è di Giuseppe Perrella, ma è ormai estesamente adottata.

[11] Giuseppe Perrella, Seminario sull’Arte del Vivere, giugno 2022.